Emergenza Coronavirus

Gli Effetti del Covid 19 sulle obbligazioni contrattuali

Già oggi l’epidemia in corso ed i provvedimenti assunti dal Governo nei decreti che si sono succeduti nelle ultime settimane, stanno determinando una crisi economica e sociale tale per cui imprenditori e parti negoziali si pongono il problema dell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni contrattuali assunte prima del sorgere dell’emergenza Coronavirus.

Quali sono gli istituti giuridici che possono essere chiamati in soccorso dalle parti contrattuali  maggiormente danneggiate dalla crisi?

Il nostro ordinamento prevede essenzialmente due rimedi:

  • L’impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1256 codice civile
  • La forza maggiore;

L’art. 1256 cc, disciplina le ipotesi di impossibilità definitiva e temporanea della prestazione.Detto articolo prevede che l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Qualora invece l’impossibilità sia solo temporanea, allora il debitore non è responsabile del ritardo nell’adempimento finché essa perdura. Ebbene, non vi sono dubbi che se un contratto è stato stipulato prima dei provvedimenti governativi restrittivi delle libertà individuali, eventuali impossibilità di adempiere le prestazioni contrattuali potrebbero ricadere nella previsione dell’art. 1256 cc.

Solo per fare alcuni esempi: impossibilità di svolgere eventi in locali pubblici- impossibilità di consegnare determinati beni entro i termini contrattuali – impossibilità di evadere ordini  in conseguenza del blocco delle attività produttive ritenute non essenziali etc

L’altra ipotesi è costituita dalla forza maggiore.

Nel nostro ordinamento non vi è una nozione precisa, tuttavia la si intende come quell’evento imprevedibile ed inevitabile al quale non è possibile resistere.

L’art. 1467 codice civile, in tema di contratti a prestazioni corrispettive ed a esecuzione continuata e/o periodica, prevede che nel caso la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e/o imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può chiedere la risoluzione del contratto, mentre l’altra parte può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

La situazione di emergenza che stiamo vivendo è caratterizzata dagli elementi oggettivi e soggettivi di  straordinarietà ed imprevedibilità previsti anche dalla giurisprudenza e pertanto appare assolutamente plausibile invocare la forza maggiore nel caso in cui la prestazione contrattuale sia divenuta eccessivamente onerosa in conseguenza dell’emergenza Coronavirus.

Contratti di locazione commerciale

A seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell'11 marzo 2020,  e delle ulteriori attività produttive artigianali del 22 marzo 2020 riteniamo assolutamente fondato che il conduttore si avvalga della disposizione di cui all’art. 1256 cc  relativa alla cosiddetta impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione.

Va considerato, infatti, che il divieto di esercitare l'attività determina l'impossibilità per il conduttore di utilizzare l'immobile, quale prestazione dovuta dalla controparte (locatore). La mancanza degli incassi determina l'impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (canone). Ciò per il tempo per il quale durerà l'emergenza sanitaria. Pertanto, in applicazione dell’art. 1256 c.c., il conduttore non è responsabile del ritardo nell'adempimento relativo al pagamento dei canoni di locazione.

Al momento della conclusione dell’emergenza e quando saranno aperte nuovamente le attività, sarà poi necessario discutere con i proprietari le modalità di pagamento dei canoni sospesi, ovvero  una riduzione degli stessi in forza del principio richiamato precedentemente della divenuta eccessiva onerosità della prestazione (canone di locazione).


Appalti

Tribunale Milano sez. lav., 13/12/2019, n.2921

Interposizione fittizia di manodopera in contratto di appalto ed onere probatorio incombente sul lavoratore

In tema di interposizione fittizia di manodopera in relazione al contratto di appalto, sul lavoratore che agisca per accertare detta interposizione fittizia grava l'onere di dimostrare l'assenza dei seguenti requisiti richiesti dall'art. 29 d.lg. n. 276 del 2003, per potersi configurare un genuino appalto di opere o servizi: che l'appaltatore sia dotato di una propria ed effettiva organizzazione; che la prestazione lavorativa sia stata resa nell'ambito di un'organizzazione e gestione propria dell'appaltatore finalizzata ad un autonomo risultato produttivo; la concreta esecuzione del contratto e, quindi, l'esistenza, anche in fatto, dell'autonomia gestionale dell'appaltatore esplicata nella conduzione aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro.

 

Osservazioni

Diversamente da quanto accade in un appalto “regolare”, nell'ambito di una interposizione illecita di manodopera lo pseudo-appaltatore si limita a porre a disposizione dello pseudo-committente l'attività lavorativa dei propri dipendenti, i quali vengono ad essere de facto sottoposti al potere direttivo del secondo, operante quindi quale reale datore di lavoro.

La giurisprudenza di legittimità ha tentato di individuare dei requisiti di carattere oggettivo la cui esistenza consente di accertare la genuinità di un appalto, ossia: l'assunzione del rischio economico da parte dell'impresa appaltatrice (recte l'alea rispetto alla possibilità che vi sia un disavanzo tra il prezzo corrisposto dal committente ed i costi da sostenere per ottenere il risultato produttivo); l'autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'impresa committente; l'effettiva direzione dei propri lavoratori da parte dell'appaltatore, dovendo essi operare alle sue dipendenze e nel suo interesse.

Indici rilevatori di un appalto non genuino sono stati invece così compendiati dalla giurisprudenza:

  • mancanza della qualifica di imprenditore in capo all'appaltatore, difetto di un'organizzazione gestionale e funzionale (così creando “imprese fantasma”, c.d. teste di paglia);
  • impiego di attrezzature e capitali forniti dal committente;
  • sostanziale potere direttivo in capo all'appaltante;
  • svolgimento da parte dei lavoratori di mansioni estranee all'appalto e riconducibili all'attività tipica svolta dai dipendenti del committente;
  • determinazione del corrispettivo non con riguardo all'opera/servizio oggetto dell'appalto, bensì alle ore effettive di lavoro;
  • corresponsione della retribuzione direttamente da parte del committente.

In merito agli strumenti di indagine circa la genuinità o meno di un appalto, tenuto conto dei mutamenti economici e tecnologici che hanno interessato gli ultimi decenni, sembra opportuno comunque fare alcune precisazioni.

Il dato testuale dell'art. 29,d.lgs. n. 276 del 2003, non fa espresso riferimento alla figura dell'imprenditore strictu sensu, sicché il legislatore sembrerebbe rivolgersi con il termine “appaltatore” a qualunque soggetto in grado di organizzare i mezzi necessari e sufficienti per l'esecuzione del servizio/opera. La sussistenza di una interposizione di manodopera è stata accertata, d'altronde, anche ove l'appaltatore era risultato fornito di una effettiva ed autonoma organizzazione ma, nell'esecuzione del contratto, lo stesso si era limitato a prestato esclusivamente la manodopera, senza assumere alcun rischio economico nell'esecuzione del contratto. La fittizietà dell'impresa, sebbene costituisca un dato indiziario, non sembra dunque sufficiente, dovendo l'operatore del diritto spingere la propria indagine oltre al profilo strettamente soggettivo del negozio.

Il contesto moderno mostra non raramente fattispecie in cui per l'esecuzione di un appalto sia richiesta la semplice attività lavorativa (c.d. “labourintensive”, distinti da quelli “capitalintensive”). In tali ipotesi oggetto dovrà verificarsi chi e come organizzi in concreto l'energia dei lavoratori, ossia in capo a quale parte contrattuale sia riconducibile l'esercizio di fatto del potere direttivo ed organizzativo.

Sul punto si rammenta il contenuto della circolare del Ministero del lavoro n. 5/2011: “L'organizzazione dei mezzi, requisito imprescindibile dell'appalto genuino, deve intendersi in senso ampio, attesa la possibilità. normativamente prevista, che essa si sostanzi, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, nel puro esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché nell'assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa”. Un appalto di “dare”, diversamente, configurerebbe una mera, ed illecita, fornitura di manodopera, limitandosi l'appaltatore a fornire forza lavoro al committente il quale ne fa uso secondo le proprie necessità. La sfera direzionale ed organizzativa entro la quale operano i lavoratori è pertanto quella dell'appaltante e non quella di colui che, quantomeno formalmente, ne è datore di lavoro (rectius l'appaltatore).

Non sorgono dubbi sulla genuinità dell'appalto in cui manchi una diretta e concreta ingerenza del committente (o del suo personale) nello svolgimento delle prestazioni lavorative degli impiegati dell'appaltatore. Analogamente qualora venga accertata una direzione meramente tecnica dei lavori – da distinguere dall'esercizio del potere direttivo - ovvero il committente proceda ad un mero coordinamento funzionale dell'attività oggetto di appalto con quelle svolte in proprio.

In passato (l. n. 1369 del 1960) l'impiego di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante consentiva di presumere l'esistenza di una interposizione di manodopera vietata. Tale orientamento è stato abbandonato in ragione delle esigenze di taluni settori nei quali il servizio/opera oggetto del contratto è in genere necessariamente eseguito mediante l'utilizzo di beni e strutture del committente. Tale è l'ipotesi dell'appalto c.d. endoaziendale.

Alcuni problemi sono sorti relativamente ad appalti in cui, oltre a non essere rilevante l'aspetto dei beni materiali, non lo è nemmeno l'esercizio del potere direttivo datoriale, svolgendo i lavoratori delle mansioni altamente specializzate. In tali circostanze suddetto potere si presenta più sfumato, tanto da poter affermare che ad una più elevata expertise ed autonomia organizzativa del dipendente, corrisponderà una maggiore difficoltà nell'individuazione di elementi denotanti il ruolo di organizzatore/direttore della prestazione in capo all'appaltatore. In tali ipotesi, ai fini della determinazione della genuinità o meno dell'appalto, dovrà pertanto farsi riferimento ad ulteriori e diversi elementi, quale ad esempio l'autonomia del risultato produttivo dell'appaltatore rispetto a quello del committente.

Alla luce di quanto sopra, sembra potersi concludere che il giudizio di liceità dell'appalto resta un esame analitico, il quale non può prescindere dal singolo contesto fattuale, dovendo il giudice confrontarsi costantemente con le peculiarità del caso e con i mutamenti del settore.

 

 


Cessione azienda

Trasferimento d’azienda: dei debiti risponde il cessionario anche in assenza delle scritture contabili

In tema di cessione di azienda, il principio di solidarietà tra cedente e cessionario di cui all’art. 2560, comma 2, c.c., con riferimento ai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento – principio condizionato al fatto che essi risultino dai libri contabili obbligatori – deve essere applicato tenendo conto della “finalità di protezione” della disposizione, finalità che consente all’interprete di far prevalere il principio generale della responsabilità solidale del cessionario ove venga riscontrato, da una parte, un utilizzo della norma volto a perseguire fini diversi da quelli per i quali è stata introdotta e, dall’altra, un quadro probatorio che, ricondotto alle regole generali, fondato anche sul valore delle presunzioni, consenta di fornire una tutela effettiva al creditore che deve essere salvaguardato.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 32134/19;)

  

Con la pronuncia del 10 dicembre 2019, n. 32134, il S.C. offre un’interpretazione dell’art. 2560, comma 2 – in tema di trasferimento di azienda e responsabilità dei debiti del cessionario – tale da garantire una tutela del creditore nel caso in cui emerga dal quadro probatorio un utilizzo della cessione con finalità strumentali solo escludere la responsabilità del cessionario e quindi in contrasto con la ratio della norma.

Il caso. Una società ottiene un decreto ingiuntivo per un proprio credito relativo ad un piano di rientro non rispettato e, nelle more, la società debitrice chiude e viene costituita una nuova società mediante trasferimento della medesima azienda della società posta in liquidazione.
Il Tribunale respinge l’opposizione promossa dalla società cessionaria dell’azienda ritenendola, ai sensi dell’art. 2560, comma 2, debitrice in solido con l’altra società, nelle more estinta.
La Corte d’Appello, per contro, non rinvenendo il debito de quo nelle scritture contabili, accoglie l’opposizione e revoca il decreto ingiuntivo. La società creditrice propone ricorso per Cassazione ritenendo erronea l’interpretazione data all’art. 2560, comma 2, in quanto l’iscrizione del debito nelle scritture contabili rappresenterebbe elemento a tutela del creditore e non può essere utilizzato in senso fraudolento per escludere la responsabilità del cessionario verso il debitore.

Debiti e crediti dell’azienda ceduta: gli interessi tutelati. Il legislatore ha disciplinato la sorte dei crediti, dei debiti e dei contratti inerenti all’azienda, ceduta in proprietà o in godimento, con norme che prendono in considerazione, più che i rapporti interni tra cedente e cessionario, i rapporti esterni del cedente e del cessionario con i terzi. In tale prospettiva, peraltro, si inquadra la previsione dell’art. 2558 c.c. sull’obbligo di non concorrenza, come effetto naturale del contratto di cessione e per il quale chi aliena un’azienda deve astenersi dall’iniziare una nuova impresa che, per oggetto, ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela traendola in inganno sull’effettiva titolarità dell’impresa.

La sorte dei crediti in caso di trasferimento di azienda. Per quanto riguarda i crediti, l’art. 2559 c.c. prevede che la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore, ha effetto nei confronti dei terzi dal momento della iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento dell’azienda. In realtà è dubbio se tale trasferimento sia automatico o in forza di apposita pattuizione. Se la prevalente giurisprudenza è nel primo senso, non mancano pronunce, più remote, che si esprimono in senso contrario. In ogni caso, è pacifico che si tratta di una successione a titolo particolare e non universale, che deroga comunque al diritto comune in quanto ha efficacia nei confronti dei terzi anche in mancanza di notifica ma in conseguenza dell’iscrizione nel registro delle imprese del contratto di trasferimento.

Trasferimento di azienda e sorte dei debiti. L’art. 2560 c.c., al comma 1, stabilisce che l’alienante non è liberato dai debiti inerenti all’azienda ceduta se i creditori non vi hanno consentito, secondo una regola che discende dal comune diritto dei contratti (art. 1273 c.c.). Nel comma 2, invece, si stabilisce la responsabilità solidale dell’acquirente (con l’alienante) a condizione che si tratti di azienda utilizzata per l’impresa commerciale e che i debiti risultino dai libri contabili obbligatori. La regola è fissata, secondo quanto previsto in precedenza, per dare certezza al rapporto coi terzi. Nulla viene previsto per quanto riguarda il rapporto tra cedente e cessionario, ma la questione è spesso risolta in via pattizia nei contratti di trasferimento. In assenza di apposita pattuizione, peraltro, in giurisprudenza si nega – ma anche qui, non mancano significative voci contrarie – l’accollo dei debiti da parte dell’acquirente.

Necessità di iscrizione del debito nelle scritture contabili. La vicenda alla base dell’ordinanza in commento riguarda uno specifico momento della sorte dei debiti in caso di trasferimento di azienda, ossia la risultanza o meno dei debiti nelle scritture contabili e, quindi, la solidarietà del cessionario per i suddetti debiti. La corte territoriale, infatti, la cui pronuncia è stata cassata dal S.C., ha seguito un’interpretazione letterale dell’art. 2560, comma 2, c.c., stabilendo che l’iscrizione del debito nelle scritture contabili rappresenta l’elemento costitutivo del sorgere della responsabilità del cessionario: elemento che non può essere surrogato da altri strumenti probatori, stante l’eccezionalità della disposizione rispetto ai principi di diritto comune.

La sorte dei debiti ed il superamento del “rigore” dell’art. 2560 c.c.. Diversamente, una parte della giurisprudenza – alla quale aderisce la pronuncia in esame – assume un atteggiamento meno rigoroso nell’interpretazione del secondo comma dell’art. 2560 c.c., affermando, ad esempio, la necessità di coniugare il dato normativo con la ratio della disposizione, per evitare che la disposizione stessa sia applicata in senso contrario rispetto all’interesse tutelato, ossia quello dei creditori. In tale prospettiva, si ritiene possibile giungere ad una soluzione come quella indicata nella massima, valorizzando gli elementi di “vicinanza della prova” e superando il rigore della necessaria iscrizione del debito nelle scritture contabili ai fini dall’applicazione del principio della solidarietà del cessionario verso il creditore.


Privacy

Cessione del credito e rispetto della privacy: la comunicazione dei dati personali è lecita purché rispetti il principio di minimizzazione

Il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti è lecito purché avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti potendo essere comunicate informazioni riguardanti il debitore persona fisica funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria e l’ubicazione dell’immobile.  

(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 34113/19; depositata il 19 dicembre)

 

Sulla violazione della privacy. La ricorrente lamentava come la Banca avesse comunicato i propri dati, anche sensibili, a soggetti privati “acquirenti di crediti”.
Premesso che il motivo è ritenuto dalla Corte di Cassazione inammissibile in quanto generico (perché la ricorrente non ha mai indicato quali dati sensibili fossero stati comunicati in violazione del principio di minimizzazione) è comunque utile vedere quali osservazioni vengono argomentate dagli Ermellini.
I Giudici osservano come il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti sia lecito purché avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati, principio ben espresso nel precedente art. 3, d.lgs. 196/2003 recante il titolo “principio di necessità del trattamento dei dati” nonché dall’art. 11, lettera d, richiedente la pertinenza, la completezza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per cui sono raccolti e trattati (recentemente riaffermato con l’art. 5, lett. c), del regolamento 679/2016, GDPR).
Su tali presupposti, la Corte di Cassazione ritiene che la Banca non sia incorsa nella violazione della legge sulla privacy solo perché abbia fornito a soggetti acquirenti del credito informazioni riguardanti la debitrice e funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria, ubicazione dell’immobile e altre informazioni salvo non venga fornita prova che la comunicazione a terzi sia avvenuta in violazione del principio di minimizzazione.


Revocatoria e trust

Il trust familiare non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico ed è per questo suscettibile di revocatoria

La costituzione del fondo patrimoniale, anche se per bisogni della vita familiare, non è obbligatoria per legge ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 25423/19; depositata il 10 ottobre)

La vicenda. Un creditore evocava in giudizio davanti al tribunale competente una coppia di coniugi per sentir dichiarare l'inefficacia nei propri confronti di un atto di conferimento nel fondo patrimoniale della porzione immobiliare, in comunione tra i detti coniugi, deducendo di avere un credito nei confronti dell'uomo della coppia in forza di un decreto ingiuntivo notificatogli anni addietro. Nel giudizio interveniva volontariamente anche un altro creditore della donna della coppia. Il tribunale accoglieva la domanda revocatoria dichiarando inefficace l'atto di costituzione del fondo patrimoniale nei confronti dei due creditori, rilevando che il credito di entrambi era costituito da alcuni decreti ingiuntivi di rilevante importo e che la costituzione del fondo patrimoniale doveva considerarsi a titolo gratuito.

Per tale motivo l’atto era suscettibile di revocatoria, anche se compiuto dai coniugi. In conseguenza dell'anteriorità dei debiti rispetto all'atto dispositivo e della gratuità di quest'ultimo, l'onere probatorio attenuato riguardava solo il periculum damni. Veniva proposto appello avverso tale decisione ma la Corte territoriale, in conclusione, rigettava l'impugnazione con condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite. L’uomo debitore, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione avverso tale ultima pronuncia affidandosi a diversi motivi illustrati con memoria.

In particolare, egli deduceva che -contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale riguardo alla natura gratuita del fondo patrimoniale- il negozio rappresenterebbe uno dei normali mezzi di adempimento dell'obbligo contributivo, in modo privilegiato, in quanto tipizzato dalla legge. Infatti, l'esigenza di protezione dei bisogni familiari rappresenta il criterio di meritevolezza tipizzato dalla legge ed il riconoscimento particolare riservato dalla Costituzione ai diritti della famiglia, imporrebbe di postergare gli interessi dei creditori rispetto a quelli dei membri della famiglia stessa. L’uomo qualificava anche errata la affermazione della Corte territoriale secondo cui la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia sarebbe suscettibile di revocatoria fallimentare, salvo che si dimostri l'esistenza di una concreta situazione che integri gli estremi del dovere morale e l'intenzione del solvens di adempiere unicamente a quel dovere mediante l'atto in questione.

E contestava, altresì, che la Corte farebbe derivare dalla natura gratuita dell'atto di costituzione tanto l'irrilevanza della intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore, quanto la relativa conoscenza o partecipazione da parte del terzo. Secondo la tesi del debitore dalla recente introduzione della figura della proprietà vincolata ex art. 2645-ter c.c. deriverebbe che la destinazione patrimoniale del bene -rispondendo ad uno scopo ritenuto meritevole di tutela- comporta una deroga all’art. 2740 c.c. in ragione degli interessi in concreto perseguiti. Infine, il ricorrente lamentava la decisione con riferimento al profilo della anteriorità dell'atto di disposizione rispetto al credito oggetto dei decreti ingiuntivi, atteso che controparte non avrebbe fornito la prova che la posizione debitoria era maturata prima della costituzione del fondo patrimoniale, giacché quest'ultima era stata trascritta due anni prima dell'emissione delle ingiunzioni di pagamento.

In tema di fondo patrimoniale per bisogni della famiglia. Gli Ermellini nella pronuncia trattano congiuntamente i primi tre motivi perché strettamente connessi, attenendo alla natura giuridica del fondo patrimoniale costituito per fronteggiare i bisogni della famiglia. Per la Suprema Corte le doglianze sono infondate atteso che, in materia, va ribadito che per pacifica giurisprudenza l'atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche se compiuto da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito e come tale soggetto ad azione revocatoria ordinaria a condizione che sussista la mera conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori.

In particolare, la Corte ricorda che la costituzione del fondo patrimoniale per bisogni della vita non integra di per sé adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti. Per questi motivi è suscettibile di revocatoria, salvo che si dimostri l'esistenza in concreto di una situazione tale da integrare nella sua oggettività gli estremi del dovere morale ed il proposito del solvens di adempiere unicamente a quel dovere mediante l'atto in questione. In altri termini, la Corte ribadisce che l'istituzione del trust familiare, nella specie per far fronte alle esigenze di vita e di studio della prole, non integra di per sé adempimento di un dovere giuridico ma configura un atto a titolo gratuito.

In tema di nozione di ‘credito’, contestazione generica ed anteriorità del credito. La Suprema Corte rileva, poi, che la censura riguardante la contestata anteriorità del credito rispetto all'atto dispositivo è stata formulata in modo del tutto generico, senza contrastare in modo efficace le affermazioni del primo giudice, tanto da non ravvisarsi elementi per modificare la decisione adottata dal tribunale. Tale argomentazione del giudice -secondo la Corte- non è stata contrastata efficacemente neppure nel ricorso per cassazione, rendendo inammissibile per difetto di interesse la doglianza. In ogni caso, precisano gli Ermellini che dallo stesso contenuto del ricorso emerge la anteriorità dei decreti ingiuntivi rispetto all'atto di costituzione del fondo per i bisogni della famiglia.

Ed, inoltre, la Corte territoriale non ha errato nel richiamare l'orientamento giurisprudenziale secondo cui occorre fare riferimento al momento della insorgenza del credito, necessariamente precedente la data del decreto ingiuntivo, perché l’art. 2901 c.c. ha accolto una nozione lata di credito comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità. Tanto è vero che è orientamento unanime che anche il ‘credito eventuale’, nella veste di credito litigioso, è considerato idoneo a determinare l'insorgere della qualità di creditore e ad abilitare l'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria verso l'atto di disposizione compiuto dal debitore. In tal senso si è espressa reiteratamente la giurisprudenza di legittimità ribadendo che il credito non sorge nel momento dell'emissione del decreto ingiuntivo nei confronti dei fideiussori, ma al momento in cui è venuta ad esistenza l'obbligazione restitutoria del debitore principale nei confronti del creditore.